“Questo assolo fallo tu, io suono l’altro”.
Intorno a me un ribollire di oggetti, ma nulla era fuori posto. Stavo seduto sul letto con la chitarra in braccio, l’ampli era acceso.
Sbagliai una volta, poi di nuovo e poi ancora. Conoscevo bene il pezzo, ma ero preso dall’ansia che sempre mi affligge quando devo registrare una canzone.
Temevo che da un momento all’altro gli sarebbe scappato uno sguardo infastidito. Non successe, anzi: per tutto il tempo rimase sereno e contento come se ci fossimo appena incontrati.
“Dai, riprova, tanto chissenefrega”.
Era stravaccato sulla poltroncina, si godeva la musica e la vita. Intuivo il rombare di irrefrenabili gangli nervosi, ma ad altri sarebbe forse apparso distratto.
La sua calma infine mi contagiò, riuscii a suonare come si deve.
Registrammo diverse parti senza che il suo atteggiamento cambiasse. Solo attorno all’ora di pranzo disse: “Vai a casa. Ora gioco un po’ con le tracce, ci vediamo dopo”.
Mangiai male per via della tensione: temevo in segreto che potesse fare qualche pasticcio e vanificare parte del lavoro. Tornai a casa sua prima del previsto, l’ultimo boccone appena smaltito.
Lui disse solo: senti qua.
Ed ascoltai le canzoni già montate, mixate, pronte. Erano semplici e ad un tempo fiorite di pienezza. Rimasi senza parole, non sapevo se gioire o arrabbiarmi, invidiarlo o abbracciarlo. Ancora una volta tutto gli era venuto bene, così, quasi senza sforzo. Non ho mai capito il suo trucco.
Lui disse solo: senti qua.
Ed ascoltai le canzoni già montate, mixate, pronte. Erano semplici e ad un tempo fiorite di pienezza. Rimasi senza parole, non sapevo se gioire o arrabbiarmi, invidiarlo o abbracciarlo. Ancora una volta tutto gli era venuto bene, così, quasi senza sforzo. Non ho mai capito il suo trucco.
“Dai, facciamone un’altra” disse, illuminato da un sorriso sornione.