Voleva che non gli rompessero le scatole, perciò si era rintanato in un bar defilato e lontano.
L’umore era scuro come al solito, circonfuso di quell’aggressività che lui chiamava istinto di sopravvivenza, ma riuscì comunque a ordinare un caffè alla graziosa commessa senza risultare brutale.
In quell’esatto istante entrò nel locale un collega, inatteso, sgraditissimo. Uno di quelli che non conosceva abbastanza bene da ricordarne il nome, e che non conosceva abbastanza male da poter ignorare.
Gli porse un mezzo sorriso di circostanza, mentre dentro si accendeva il fuoco infernale.
La commessa lo conosceva. “Caffé anche per lei? Già fatto” e mise le due tazzine in parallelo, sotto gli ugelli della scintillante macchina.
“Con tutti i bar che ci sono, proprio qui doveva venire. Mai che si possa stare in pace, mai che…”
Una fitta lo colpì al cuore, o al portafogli lì accanto.
“E ADESSO, vorrà mica che gli offra il caffè?!”
Non era un tipo generoso e di certo non voleva cambiare quel giorno, per quello lì.
I caffè arrivarono insieme. Mentre l’altro lo sorseggiava amaro, al nostro venne spontanea la strategia: versato lo zucchero, mescolò con lentezza estrema. Funzionò: il collega fu alla cassa prima che lui potesse avvicinare la tazzina alle labbra.
“Senta” disse l’altro alla commessa “ne pago due. Tra colleghi…”
La pressione alle tempie lo accecò per un istante. Poi fu un panegirico di grazie, ma non dovevi, a buon rendere.
Uscì dal bar rosso di vergogna, eppure morso da un solletico alla pancia che gli strappò un sorriso.