Anatoly è morto, si è fatto uccidere tentando inutilmente di sventare una rapina. Lo piange la famiglia, lo piange la comunità, l’Italia, il mondo intero. Un eroe, un santo, un esempio per tutti noi.
Questo ed altro diceva donna Rosa davanti alla telecamera di tele Partenopea che la riprendeva in lacrime, a poca distanza dal supermercato ancora lordo di sangue. Ma nel retrocranio della signora un concetto gridava potente, mettendo a rischio la credibilità del melodramma.
“Però, ‘stu guaglio’ si l’è cercàt”.
Se l’era cercata: lo pensava anche Ciro, pensionato settantenne che, da testimone diretto della tragica scena, avrebbe più di altri avuto diritto di parola, se solo avesse voluto esercitarlo.
“Era già asciuto cu a’ criatura, pecché è turnato arretr? Cosa e’ futtev’a iss’? E quant’ poteva esse’ mai, trecent’euro… E ppe na’ fesseria accussì te fai accìrere? Ca’ si scemo?”
Vincenzino, dieci anni, guardava spaventato il breve servizio televisivo dedicato all’ucraino, a cavallo tra uno sbarco di migranti ed una polemica politica estiva.
“Papà, ma pure tu l’avissi fatt’, di firma’ o’ rapinatore?”
“Ma quann maje Vincenzi’, impar’a fatte e’ fatti toj!”
Il bambino non capiva, ferito dall’abisso tra una storia che gli faceva venire da piangere, e quelle parole aspre e ciniche.
“Allora isso pecché l’hà fatto?”
Il padre si piegò all’altezza dell’innocente, per guardarlo dritto negli occhi. Rispose con la sua voce più rassicurante.
“Pecché isso nun capisc, guagliunce’, isso è ‘no stranio, uno straniero, pace all’anima so’.”