Nel bruciare degli occhi secchi, era come se il tempo si fosse fermato per prolungare il dolore oltre ogni giustizia e decenza; ed insieme il tempo era turbinio d’aria e percezione, un vortice violento che gli impediva di trovare un punto fermo attorno o dentro di sé, e lo faceva impazzire, e gli dava la nausea.
Dottore, per quanto ne avrò?, chiese implorante all’asettico medico di famiglia.
Deve avere pazienza, in due o tre settimane magari ne usciamo.
Due o tre settimane, magari. Una distanza impossibile per un uomo solo, carico di responsabilità e di impegni in un’azienda che gli dava molto ma gli chiedeva di più.
Quante le cose da fare, e invece non riusciva nemmeno a liberarsi dalle coperte, morbide carceriere.
Il pensiero del biasimo che al ritorno avrebbe letto sui visi dei colleghi lo tormentava come una lama nella carne, ma forse non era un pensiero, era un incubo a metà tra il sonno e la veglia, uno dei tanti che si nutrivano di febbre e convulse paure, che si ammantavano di sudore e brividi inarrestabili, che lo affossavano in pieno giorno e lo svegliavano nella notte.
Pure, in quello stato di sofferente confusione, un vero dubbio emerse, nitido: ma davvero la sua presenza era così importante?
Presto o tardi, avrebbero potuto affidare i suoi progetti ad altri. O magari abbandonarli, semplicemente.
Il tempo lo portava via dal mondo. Ne sarebbe bastato poco, in realtà, per scomparire. Tutti si sarebbero presto abituati alla sua assenza, tutti tranne lui.
Vi prego, aspettatemi, vi prego, non dimenticatevi di me.