Aspettando il figliolo

Ciro e Pinuccia sono seduti attorno al tavolo della cucina e si guardano, che non sanno cos’altro fare.
Davanti a loro, la stampa del messaggio: “Arrivo tra qualche giorno, porto novità”.
Poteva almeno dirci quando, sbuffa Ciro.
Lo sai com’è tuo figlio, risponde Pinuccia, e non c’è niente da aggiungere.

Lo sanno com’è il ragazzo, che finita la scuola vuole partire per vedere il mondo. Non ha un soldo ma non sente ragioni. Prende lo zaino, dice che se la caverà, se ne va.
Rifiuta pure il cellulare in nome della libertà. Promette qualche email ogni tanto, e Ciro si butta in un corso di computer per capire cos’è ‘sta diavoleria.
Ogni settimana scrive che è felice, lavoricchia, viaggia, che possono volere di più? Certo, patiscono un po’ la mancanza, ma pazienza.

Dopo due anni si decide a tornare. Non stanno più nella pelle: Pinuccia fa le pulizie, Ciro sistema la stanzetta. In un giorno è tutto pronto, ma il figlio non si vede.
Passa una settimana. Sono tesi e impazienti. Quel tempo indefinito gli si allarga dentro e diventa infinito. Eppure non è un tempo perso, lo capiscono: in esso c’è calore, un lento lievitare d’amore, il rinascere del viso del figlio. Fosse tornato all’improvviso, non sarebbero stati pronti.

Suonano alla porta. Ciro e Pinuccia corrono e trovano un barbuto occhi profondi e una donna pelle d’ebano, pancione e sorriso di sole.
Ma’, pa’, lei è Zaira.
Pinuccia è di pietra, troppe sorprese. Ciro guarda a terra.
Poi dice: vabbè, qualcosa ci inventiamo. Entrate picciotti.

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