Lockdown

Aveva raggiunto un equilibrio perfetto.

Non si muoveva più di quanto non fosse strettamente necessario: dal letto al bagno, poi in cucina per la colazione ed il lavoro – il portatile era ormai incollato al tavolo. La comoda sedia girevole che si era fatto consegnare gli permetteva di non alzarsi, mentre organizzava il frugale pranzo. Data l’irrisoria attività fisica, poteva mangiare pochissimo, e del resto il cibo gli era venuto a noia.
Se lo schienale fosse stato reclinabile, forse avrebbe pensato di passarci la notte, su quella sedia.

Certo, i primi tempi erano stati duri. Perdere le abitudini, il contatto con le persone e tutto il resto. Ma col passare delle settimane, qualcosa di inatteso si era manifestato. Una sorta di nebbia mentale che, senza renderlo meno brillante (il lavoro ne avrebbe risentito), aveva intorpidito i sensi ed i bisogni fisiologici.

Una pace insperata, nessun desiderio residuo.

Una situazione molto zen, avrebbe forse commentato il suo collega avvezzo alle cose spirituali. Ma a lui quell’argomento non interessava. In tutta onestà, nessun argomento ormai lo entusiasmava più.

Il cicalino lo informò della videochiamata in ingresso. Sbuffò, prima di rispondere.
“Si può sapere che fine hai fatto?”
“Eh… il lockdown…”
“Ma è finito da tre mesi, dai! Al bar manchi solo tu, non scendi più nemmeno per fare la spes…”
Click.

Spense il pc all’improvviso, ubbidiente alla voce del suo vuoto interiore.
Perché dare spiegazioni, perché parlare.
Forse, quel giorno avrebbe anche evitato il fastidio di mangiare.

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Inno all’Amore

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli,
ma non avessi l’Amore,
sarei solo
una campana che risuona
o un tamburello che tintinna.

Se avessi il dono della profezia
e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza
e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne,
ma non avessi l’Amore,
non sarei nulla.

Se distribuissi tutti i miei beni per sfamare i poveri,
se dessi il mio corpo per essere bruciato,
e non avessi l’Amore,
non mi servirebbe a nulla.

L’Amore è paziente,
è benevolo l’Amore;

l’Amore non invidia,
non si vanta,
non è orgoglioso,
non insulta,
non cerca il proprio interesse,
non si arrabbia,
non tiene conto del male ricevuto,
ma gioisce della verità;

sempre sopporta,
sempre crede,
sempre spera,
sempre persevera.

L’Amore non verrà mai meno.

[…]

Esistono queste tre cose: la fede, la speranza e l’Amore;
ma la più grande di esse è l’Amore.

San Paolo di Tarso

Clair de Lune

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Affacciati Luna in punta di piedi all’orizzonte e poi balla,
balla per me.

Le mani piegano lo spazio
e gli occhi chiusi disegnano scie di tenerezza infinita
per la vita, la bellezza, la meraviglia
che può nascondersi dietro ogni sasso
che troverò dietro ai sogni che fai

Io sto qui e altrove,
viaggio veloce in un tempo che non fu mai,
a quando ti tenni la mano per tutta la notte
solo per dirti chi fossi per me,
perché capissi, e a me guardassi
perché capissi, e a me venissi

Ed ora la musica mi cade addosso come una cascata,
di lacrime e gioia e brividi e
misurando le gemme e gli spruzzi che brillano d’oro
scompaio nel mistero dell’amore
raffinato dal fuoco della distanza
reso puro e vero nei vuoti siderali
circondati di miliardi di stelle vive
e pulsanti, come me
che non posso dormire sereno
se non ricordando che sono
e che tu
sei

Ti guardo luna,
fasciata di bianco e sporca di sangue
mentre affliggi i cuori di chi ti è lontano
mentre cerchi la voce che ti possa narrare
E non oso essere io
eppure eccomi a gridare
a cantare ballate senza parole
a subire la tua ira
e insieme a pregare
che domani non arrivi
per stare ancora un attimo
un piccolo istante
insieme a te, e ancora
non dover conoscere la fine
del sentiero che ci tiene insieme
Ora albeggia
ora albeggia
e già non sei più

Luce silente dalle mie labbra
per dire tutto quel che non potrei
viaggia veloce e raggiungi il suo lido
il luogo del riposo e della gioia
dove ancora la troverò
ed insieme scruteremo
al di là di ogni luogo e tempo e memoria
il mare eterno
dell’eterno amore

 

Claude Debussy – Clair de Lune L. 32

La speranza di settembre

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Passato l’apice della calura, l’aria tornò respirabile nella seconda metà di agosto.
Agatino ricercava da tempo una direzione per la sua vita. La laurea fresca e lodata lo guardava dal chiodo cui era stata appesa: che ne sarà di noi? Pochi mesi di colloqui falliti e aveva capito quanto il suo paese non fosse, pur nell’ineguagliabile ricchezza culturale, nemmeno lontanamente in cerca di bravi umanisti capaci di risollevarne immagine ed orgoglio.
Rifiutava di buttarsi in un call center. Era forse un po’ altero, ma più che altro preoccupato: l’esperienza poteva minarne in modo irreparabile l’entusiasmo. No, se nessuno gliene offriva uno di valore, allora il lavoro doveva plasmarselo da solo.

Subito dopo questa scelta arrivò il caldo, la fiacchezza, l’assopirsi di idee e speranze. Ma l’anima rimestò nel segreto delle notti più torride, e quando fu ad un passo dall’inebriante frescura settembrina, riaccese di botto la mente. Che idea, che rivoluzione.
Chiese un prestito alla famiglia e lavorò senza posa per settimane. Fu fortunato: tutto l’universo sembrava volere che la sua libreria-gelateria partisse entro il 30 di settembre. I paesani l’avrebbero adorata.

L’inaugurazione fu un clamore di gioia, mamme e bambini curiosi scorrazzavano coni in mano tra uno scaffale e l’altro.
La novità implose però entro pochi giorni. Agatino sapeva che era normale, la sua fiducia non si infranse nemmeno all’arrivo del rigido novembre.
Quando finalmente si rivide il caldo, sul negozio vuoto campeggiava solo un cartello – Affittasi.

Ti volevamo bene

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Nel paesotto lo conoscevano quasi tutti, gli occhialoni tondi, il sorriso sempre in pista. Aveva imparato a farsi voler bene sin da ragazzino ed attorno ai trent’anni era uno su cui contavano in molti. Non aveva grandi doti, ma sapeva far sentire unica e speciale ciascuna delle persone con cui aveva a che fare. Gli auguri di compleanno agli anziani, le ore a impolverarsi con la palla per i bambini, le battute e gli abbracci per i coetanei. Il sindaco, da sempre amico di famiglia, lo guardava e pensava: un giorno toccherà a te aver cura di questa comunità.

Poi iniziarono gli sbarchi, così almeno diceva la TV. Il paesotto era lontano dal mare, ma l’onda lunga del dolore sembrava scuotere il cuore dietro agli occhialoni. Ne parlò un po’ in giro ma nessuno capiva la sua pena. Dopo qualche settimana sparì.
L’assenza divenne presto palpabile. Agli amici che cercavano notizie, la mamma in lacrime rispondeva: si è imbarcato con qualche ONG, vuole salvarli tutti, non so altro.

Passarono le stagioni e cambiò l’aria del paesotto. Non si sorrideva più in giro, ma ci si arrabbiava per i giornali che parlavano di invasioni straniere. Quando il prefetto ordinò di alloggiarvi dieci rifugiati, il comune scese in piazza per giorni.
Una sera apparve una figura nota e insieme irriconoscibile: dietro agli occhialoni c’era un uomo smunto, la pelle arsa, la barba incolta.
Cosa fate, iniziò a gridare disperato, questa gente ha bisogno di aiuto!
Molte voci si alzarono contro di lui, più forte quella del sindaco: come osi parlare, proprio tu! Noi ti volevamo bene, e tu ci hai dimenticati per degli sconosciuti!

Calò il silenzio di fronte allo stupore sul viso trasandato. Tremava e taceva. Tra la gente si dava di gomito: ben gli sta.
Finalmente, parlò a mezza voce.
Ho pensato ad ognuno di voi, ogni singolo giorno. Come avrei potuto farcela in mezzo a tanta morte, se non aggrappandomi all’amore che mi avete donato e insegnato?
L’amore non si può dimenticare!

Perso

daylight-desert-drought-459319Camminava per istinto, senza forza o convinzione, gli occhi consumati dal sole e dalla sabbia. Non sapeva dove andare, né se fosse più arido il deserto in cui sprofondavano i suoi piedi, o quello che serbava in cuore.

Non avrebbe retto a lungo, e quasi smaniava l’arrivo del momento finale, quando avrebbe potuto prendere atto dell’incapacità del proprio corpo di andare avanti e lasciarsi morire. Ma fino a quando le gambe lo reggevano, no, non poteva fermarsi, l’ultimo refolo di coscienza lo imbrigliava all’imperativo morale di fare quanto possibile per salvare la propria vita, per quanto futile sembrasse.

In una fiaba, pensava, a questo punto dovrei vedere in lontananza un’oasi. Ma la vita vera funziona in altro modo.
Qualcosa in effetti si mosse all’orizzonte. Agitò le braccia. Un grosso mezzo cambiò rotta, avvicinandosi.
Dal pick-up saltarono giù due uomini armati e feroci. Senza rivolgergli la parola, il primo lo colpì al viso col calcio del mitra. Quando riprese i sensi, era legato mani e piedi, in viaggio verso chissà dove.
I miei imperativi morali, salvare la mia vita – pensò e maledisse loro e se stesso. Quanto meno doloroso sarebbe stato, lasciarsi andare al sole del deserto.

A sera gli diedero un sorso d’acqua sporca e lo buttarono in una stanza diroccata. Un altro uomo vi giaceva legato, il corpo martoriato ma lo sguardo vibrante di intensa luce.
Chi sei, cosa ti hanno fatto?, chiese il nuovo arrivato, senza sapere cosa dicesse.
L’altro sorrise pieno di tenerezza. Sono un Uomo, disse, come puoi esserlo anche tu.

Un’altra partita

Il livello era passato, grande. Seduto sul gabinetto, si godette l’istante di piacere.
Ora toccava al quadro 932. Rispetto ai duemila e rotti livelli del gioco, aveva ancora un bel po’ di lavoro da fare, ma era solo questione di tempo, prima o poi li avrebbe dominati tutti. Nuova scarica di ormoni nel sangue.

Sempre che gli sviluppatori gliene avessero concesso il tempo. Pubblicavano dieci nuovi livelli ogni settimana. Lui ci si metteva d’impegno, ed al gioco immolava la maggior parte del suo tempo libero. Ma alcuni di quei quadri erano dannatamente difficili da completare, a volte doveva combattere per giorni prima di riuscire a procedere. La distanza che lo separava dalla fine dell’impresa non si accorciava mai, anzi.

Il pensiero lo irritò inaspettatamente. Forse qualcosa iniziava ad incrinarsi in quella passione che sapeva tanto di schiavitù? Non era affatto giusto: il devoto giocatore, nonostante i prolungati sforzi, non sarebbe mai riuscito a vedere la fine delle sue battaglie.
Già… ma da quanto tempo stava giocando? Erano cinque… no, erano almeno sei anni che si consumava la vista sul display del telefono.
Più o meno tre minuti a partita. Quante partite al giorno, quanti giorni. La sola idea, confusa e approssimativa, di quel tempo di vita perduto gli fece una dura impressione.

E se.
Gli venne in mente quel suo progetto, accantonato chissà da quanto. Avrebbe potuto cambiargli la vita. Peccato solo che non avesse mai tempo da dedicargli, mai.

Pieno di rabbia ed odio per sé stesso, iniziò la nuova partita.

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Avanzare barcollando

Testi pensanti

Forse non si tratta di evitare lo schianto ma di cercare il punto di rottura, per trovare l’errore nel codice, correggerlo, e andare avanti fino a trovare il prossimo errore. La sfida che ti fa andare avanti nella battaglia per rimanere in piedi. Forse avanziamo tutti barcollando dalle domande giuste alle risposte sbagliate o dalle domande sbagliate alle risposte giuste. Non importa dove tu stia andando o da dove provieni, basta che continui ad avanzare barcollando.

(dalla serie ‘Mr. Robot’)

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Bisogna umiliarsi e servire

Testi pensanti

Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare – tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri.
Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto.

(Cesare Pavese a Fernanda Pivano)

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Humana F(iducia)

latteCammino bel bello per i fatti miei, quando incontro un tizio che chiede aiuto: i tratti da trentenne malandato dicono una povertà forse un po’ ostentata.

Deve comprare del latte in polvere speciale per suo figlio, di pochi mesi e sofferente per un odioso problema che gli fa rigurgitare qualsiasi latte comune. Essendo padre anch’io, penso non sia giusto svicolare.

Quanto costa questo latte? Trentasette euro, mi risponde con voce segnata dalla disperazione di chi non sa aiutare la propria creatura, e mostrandomi intanto una quantità di ricette mediche che, onestamente, non capisco neppur bene a cosa si riferiscano.
Per le mie finanze non si tratta certo di pochi spiccioli, ma la causa è giusta.
Va bene, gli dico, prendiamolo. Come si chiama il prodotto? Humana F, mi risponde.
Ripeto paro paro il nome al farmacista: spiacente, non ce l’abbiamo.

Esco intristito, tanto più che nel frattempo il giovane padre incita con sempre maggiore foga ad aiutarlo, per carità, tu che sei bravo.
Un minuto di dubbio, e decido come gestire la spia di diffidenza che si era accesa nel mio cruscotto mentale sin dall’inizio.
Prenota il latte, domani passerò a pagarlo io, te lo prometto. Sono sincero.
Esplode la crisi di lacrime e preghiere in ginocchio: ed oggi, ed ora cosa gli do?
Problema serio senz’altro, eppure suona stonato che a fronte di un’offerta generosa lui sembri preferire ancora gli spiccioli del subito.
Insisto inutilmente. Lo lascio, triste e scornato.

Un’ora dopo il buon Google mi rivela che nessun latte Humana F esiste al mondo.